No, tranquilli, non è un post sull’arrampicata. Sto pensando al vuoto in senso simbolico, quando percepiamo profonda mancanza o solitudine, il vuoto psicologico opposto alla pienezza, di vita e di sensi. Nella vita personale e in quella di lavoro.
Il dolore è micidiale, ma anche il vuoto mica scherza.
Il dolore è aspro, il vuoto è un po’ più gentile. Però è pesante, e se dura a lungo ci fa perdere il senso, di ciò che siamo e della direzione. Il vuoto dopo un po’ è triste, e noioso. Deprimente.
Affrontare il vuoto non è da tutti. Infatti molti non ne sono capaci e infilano e affastellano tanto per non sentirlo. Sentirti isolati, disconnessi, per noi umani è allarmante. Siamo geneticamente predisposti ai legami, poiché ne va della sopravvivenza. Affrontare il vuoto richiede una base solida, esistenziale e filosofica, o valoriale.
Ma in fin dei conti, come tutte le esperienze profonde ci può insegnare qualcosa.
Il silenzio prolungato ci mette in contatto con i nostri veri bisogni. Ci spinge a cercare il modo di nutrirli, senza aspettare che ciò che ci serve ci cada dal cielo. Se in quel silenzio ci ascoltiamo, possiamo arrivare a contatto con il nostro nucleo più autentico e fondamentale.
E l’esperienza del vuoto ci porta a mobilitare competenze importanti. Sì perché il vuoto, per quanto tosto, è uno spazio che possiamo inventare come riempire. Finalmente.
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