Diversamente dalle generazioni precedenti, noi non siamo (non eravamo) più a contatto quotidiano con la sofferenza. In molti non sappiamo più stare nella sofferenza. Nemmeno nelle seccature, a ben vedere. L’alcool non brucia più né ha lo sgradevole odore di quando ero bambina, per dirne una.
In linea di principio non ho nulla contro lo stare bene, anzi. Se puoi evitare le sofferenze meglio per te e pensare di crearne di artefatte solo per allenarsi ha del perverso, mi pare. Però è vero che se non ci siamo abituati non sappiamo fronteggiarle, né dargli una proporzione.
Alcune aziende che conosco sono a questo bivio. Erano abituati a star bene e ora fanno fatica. Qualcuno dice stavamo troppo bene e io rispondo che no, il troppo non c’è. Ma non bisogna darlo per scontato. L’abitudine che automatizzando ci allevia il peso della concentrazione, del capire, quando ci viene sottratta diventa essa stessa peso.
Credo che la cosa principale da fare in queste aziende sia il dialogo, contattare la parte adulta delle persone. Dialogare per affrontare la sofferenza, per farla emergere senza ingigantirla. E poi lavorare insieme per organizzarsi meglio, in modo solidale. Così anche se i problemi non sono risolti vengono almeno presi in carico, ed è già una cosa. Concreta, vera.

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