Un conflitto diventato cooperazione
Abbiamo preso informazioni su di te e vogliamo proporti un intervento difficile
Daniela ha i colori di una donna del sud, lunghi capelli neri, occhi neri. È venuta qui per studiare, mi racconta, e poi è rimasta. Ha sposato un ragazzo di Bologna e più che altro ha trovato lavoro in questa azienda. È laureata in statistica, è entrata alle risorse umane perché era l’unico vero spazio per una donna in una azienda di uomini. Da impiegata paghe a dirigente con i controfiocchi, la definizione è sua.
“Abbiamo preso informazioni su di te”, mi dice, “e vogliamo proporti un intervento difficile”. Io ascolto la sua descrizione del problema e poi rispondo: “Non posso assicurarti un successo e se un altro consulente lo fa sono balle. Ma ti garantisco che ce la metterò tutta.”
Due reparti uno contro l’altro e tutti insieme contro l’azienda. Quelli di là non fanno un tubo (la parola originale l’ho emendata). Quegli altri fanno bella figura perché il loro lavoro è più facile. La direzione non capisce un tubo (idem). Non sanno cosa vuol dire lavorare. I capi reparto non sono capaci di far funzionare le cose. All’ufficio tecnico sanno solo insabbiare i problemi, non ci danno mai una risposta e la Direzione pretende che spediamo. Alla qualità si credono i giudici del mondo… eccetera eccetera eccetera. Toni accesi, gente molto arrabbiata, urla nei reparti e negli spogliatoi. Tutti i giorni problemi piccoli e grandi. Persone col badge in mano pronti uscire appena l’orologio segna le cinque. Segnali di assenteismo. Daniela descrive il problema così. Gli operai, in sintesi, dicono ci sono problemi, sono due anni che lo facciamo presente e non ci ascoltano.
Guarda, fa Beppe, operaio storico, che questa era un’isola felice. Volevano tutti venire a lavorare qui perché si stava bene e si prendeva, si prende tutt’ora, bene. Ci pensa un attimo e poi continua, forse è questo il problema, siamo abituati troppo bene.
Districarsi nel labirinto
La gestione di un mega conflitto è simile al districarsi in un labirinto. Dovunque ramificazioni di ruggini passate e presenti, incrostazioni di pregiudizi e svalorizzazioni. I sentimenti in gioco sono intensi, si fa fatica a parlare. Le persone sono così arrabbiate e deluse non ascoltano, basta niente e partono per la tangente. Ad esempio Matteo, al primo incontro neanche due minuti e salta su col fumo che gli esce dalle orecchie e mi accusa. Poi si rende conto che non ce l’ha con me e alla pausa si scusa. Matteo è un ragazzo intelligente, ma è esasperato.
C’è voluto tempo, alcuni incontri con me e tempo di decantazione, per far riflettere i 12 operai nel reparto di Beppe e i 10 in quello di Matteo, che così non si poteva andare avanti, che bisognava ricucire un dialogo costruttivo e dai toni pacati. E quelle 22 persone con fatica lo hanno fatto, hanno rivisto i loro modi, hanno capito.
Trattarli come adulti
Nel mentre con i capi reparto, le risorse umane e la direzione inauguriamo un periodo di ascolto delle richieste e di selezione. Si convincono che bisogna comunicare ai reparti in modo chiaro a cosa verrà dato un seguito e a cosa no, non dire si va bene e poi far svanire nel nulla la questione. Le richieste approvate vengono attuate e non insabbiate. Quando vengono cambiati i carretti e posizionate diversamente le attrezzature vicino alle isole di lavoro finalmente comincia a cambiare anche l’aria che tira.
Prezzi da pagare e facce sorridenti
E insomma, alla fine un capo reparto è andato via, il direttore di stabilimento pure e quelli non sono stati i soli prezzi da pagare. Daniela è riuscita a far entrare un paio di ragazzi nuovi. Molte cose sono state migliorate. Soprattutto, capi reparto e operai hanno smesso di gridare e si danno una mano. In capo a sei mesi si vedevano facce sorridenti, quando sono tornata da loro due anni dopo i problemi non erano più gli stessi. Beppe e Matteo lavorano ancora lì.